Giosuè Carducci
Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci (Valdicastello, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907) è stato un poeta, scrittore e critico letterario italiano. Carducci è stato il primo italiano vincitore del Premio Nobel per la letteratura. Insieme a Camillo Golgi, è stato il primo italiano in assoluto insignito di tale premio nel 1906. BiografiaGrafia del nomeIl nome è spesso riportato come «Giosue», senza accento, poiché, secondo alcuni, questa forma sarebbe stata preferita dal poeta[2]. La diffusione di questa forma si può spiegare, secondo Giuseppe Fumagalli e Filippo Salveraglio,[3] con un errore nella trascrizione dell'atto di nascita nella biografia del poeta di Giuseppe Chiarini: Giosue, Alessandro, Giuseppe Carducci ecc.[4] Il critico letterario dice di aver riportato l'atto di nascita del Carducci già pubblicato da Giuseppe Picciola nelle note al suo Discorso: Giosue Carducci[5], ma se si consulta l'atto di nascita riportato da Picciola si trova scritto: Giosuè, Alessandro, Giuseppe Carducci...[6] Mario Saccenti riporta il nome Giosuè, con l'accento[7]. La fotografia dell'atto di nascita, recante il nome Giosuè con l'accento, è consultabile in Fumagalli-Salveraglio[8], dove gli autori inoltre scrivono[9]: «Occorre appena rilevare che sia l'atto di nascita, sia in tutti i documenti posteriori il nome del Poeta appare sempre scritto Giosuè, con l'accento nell'ultima, e così lo si pronuncia sempre in Toscana e così chiamavano lui i suoi familiari e gli amici. È vero che negli ultimi anni prevalse la forma più classica Giòsue, che si avvicina al latino Josue. Ma egli, almeno fino al 1875-1880, firmò sempre Giosuè; poi cominciò insensibilmente, non per deliberato proposito di cambiare l'ortografia e la pronuncia del nome, ma per trascuratezza grafica, prima a legare con un sol tratto di penna il nome al cognome e quindi a far servire l'asta iniziale del C anche come accento finale della e e finalmente a omettere addirittura l'accento. Ma che ciò non fosse fatto di proposito, lo provano le stampe rivedute da lui. Nei frontespizi delle Opere zanichelliane, fino al vol. XI il nome è accentato; col vol. XII (1902) si disaccenta; vedasi pure nei Bozzetti Critici (Livorno, 1876), a pag. 217, e in Opere, IV (1890), a pag. 113, dove egli, nelle Polemiche sataniche si nomina solennemente Giosuè. In ogni modo, questo, sia vezzo, sia negligenza o pigrizia grafica, è degli anni più tardi: e deve ritenersi come una leggenda quella, creata forse dopo la biografia del Chiarini che lo disaccenta, ch'egli volesse scriversi e farsi chiamare Giòsue». Origini familiari![]() Michele Carducci (1808-1858), studente di medicina a Pisa, figlio di Giuseppe, un leopoldino conservatore, e di Lucia Galleni, era uomo dalle forti passioni politiche e di tempra irascibile. Da giovane fu un cospiratore rivoluzionario e, in seguito ai moti francesi del 1830, sognò che anche in Italia il corso degli eventi potesse prendere una direzione simile. Mazziniano[10], dopo che le autorità intercettarono una sua lettera, fu arrestato e confinato per un anno a Volterra, dove conobbe Ildegonda Celli (1815-1870), figlia di un orefice fiorentino ridotta come lui in condizioni di povertà.[11] Al termine del confino tornò a Pisa, dove completò gli studi, e andò poi a vivere in Versilia a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta, sua terra natale. In questa località sposò la Celli il 30 aprile 1834.[Nota 1] L'infanziaÈ qui che il figlio primogenito di Michele e Ildegonda Celli, Giosuè Carducci, nacque la sera del 27 luglio 1835,[Nota 2] e fu battezzato nella chiesa locale il giorno successivo. La scelta del nome fu contesa dai genitori; il padre voleva chiamare il nascituro Giosuè, come un amico reincontrato, dopo parecchio tempo, durante la gravidanza della moglie, mentre Ildegonda avrebbe preferito Alessandro, come suo padre in quel momento gravemente malato. La spuntò Michele, ma Alessandro fu comunque il secondo nome del futuro poeta.[12] Giuseppe, il terzo nome, gli fu assegnato in omaggio al nonno paterno. I problemi finanziari del padre si acuirono, costringendolo a lasciare Valdicastello, conducendolo a Seravezza, dove nacque il secondogenito Dante (1837), e nei pressi di Pontestazzemese (in località Fornetto, all'epoca sotto Retignano), finché nel 1838 la famiglia si trasferì a Bolgheri, in piazza Alberto, dove Michele ottenne una condotta nel feudo della Gherardesca.[13] Il piccolo Giosuè cresceva già mostrando in nuce le caratteristiche che lo contraddistingueranno per tutta la vita: ribelle, selvatico, amante della natura. A tale proposito molto significativi paiono due episodi di cui ci fa menzione egli stesso. All'età di tre anni: «Io con una bambina dell'età mia... a un tratto ci si scoperse una bodda.[14] Grandi ammirazioni ed esclamazioni di noi due creature nuove su quell'antica creatura... un grave signore si fece sull'uscio a sgridarmi... Io, brandendo la fune, come fosse un flagello, me gli feci incontro gridandogli: Via, via, brutto te! D'allora in poi ho risposto sempre così ad ogni autorità che sia venuta ad ammonirmi, con un libro in mano e un sottinteso in corpo, a nome della morale.[15]»
Carducci teneva inoltre in casa una civetta, un falco e un lupo. Quando il padre ammazzò il falco e regalò a un amico il lupo, il figlioletto passò giorni di grande dispiacere, vagando per lunghe ore in lacrime nei boschi.[16] A Bolgheri Giosuè fu colpito ripetutamente da febbri che lo tormentarono per un paio d'anni, mentre il padre lo accudiva, riempiendolo di chinino. «Il chinino ingoiato gli lasciò straordinarie visioni. Originò da quella violenta cura l'impressionabilità della sua fantasia sensibilissima e quella irrequietezza che pareva a volte spasimo della sua psiche».[17] Nella località maremmana nacque il terzo figlio, chiamato Valfredo (1841), in ossequio alle inclinazioni romantiche del padre. Michele disponeva di una discreta biblioteca, in cui si riflettevano le predilezioni classico-romantiche e quelle rivoluzionarie. Qui Carducci poté voracemente impegnarsi nelle prime letture, e scoprire l'Iliade, l'Odissea, l'Eneide, la Gerusalemme liberata, la Storia romana di Charles Rollin e la Storia della Rivoluzione francese di Adolphe Thiers.[18] Gli studiNei dieci anni a Bolgheri la famiglia visse in povertà e non era possibile per Giosuè frequentare la scuola; il padre incaricò così il sacerdote Giovanni Bertinelli di dargli lezioni di latino durante il giorno, mentre la sera era direttamente Michele a impartirgli l'insegnamento della lingua romana che il giovane amò profondamente sin dall'inizio.[19] Già in questi anni cominciò a cimentarsi nella composizione di qualche verso, la Satira a una donna (1845) e l'appassionato Canto all'Italia (1847), entrambi in terzine. Il 1848 è l'anno del sonetto A Dio e del racconto in ottave La presa del castello di Bolgheri. Il progetto didattico paterno prevedeva la lettura dei classici latini (si dice che il ragazzo sapesse a memoria i primi quattro libri delle Metamorfosi) ma anche del Manzoni e del Pellico, che il figlio obbedientemente studiava, pur covando una vena antimanzoniana che andrà acuendosi negli anni appresso.[20] Le idee politiche di Michele Carducci, membro della Carboneria viareggina,[21] intanto, cominciarono a rendergli la vita impossibile in paese,[22] tanto che dovette migrare dapprima a Castagneto (oggi Castagneto Carducci ingloba gli antichi borghi di Castagneto e Bolgheri) e poi a Lajatico, dove in breve si ripropose lo stesso problema, che convinse il dottore a cercar rifugio nella grande città.[23] Fu così che il 28 aprile 1849 i Carducci si stabilirono a Firenze (in una misera abitazione di via Romana) dove il primogenito, quattordicenne, conobbe la quindicenne Elvira, figlia del sarto Francesco Menicucci e della sua prima moglie. Menicucci aveva sposato in seconde nozze Anna Celli, la sorella di Ildegonda Celli ed era divenuto così parente della famiglia, instaurando un'assidua frequentazione che permise ai due ragazzi di vedersi spesso.[24] Il 15 maggio cominciò a frequentare il liceo nelle Scuole Pie degli Scolopi di San Giovannino, acquisendo una sempre più sorprendente preparazione in campo letterario e retorico. Nei primi mesi il suo docente di umanità fu don Michele Benetti. Prima di iscriverlo al biennale corso di retorica (1849-1851), il padre pensò per un istante di introdurlo nel Liceo Militare, ma abbandonò presto l'idea.[25] Continuò così la frequentazione delle Scuole Pie, dove l'insegnante di retorica era padre Geremia Barsottini (1812-1884), sacerdote con fama di liberale e poeta dilettante d'ispirazione romantica. Carducci strinse amicizia in particolare con due compagni, Giuseppe Torquato Gargani ed Enrico Nencioni, i quali notarono subito il suo talento superiore alla norma. È noto l'episodio, riferito dal Nencioni stesso, di quando ad un'interrogazione di latino in cui ciascuno doveva tradurre e spiegare oralmente un passo ad libitum, Giosuè estrasse un libro non annotato di Persio, e lo espose con sbalorditiva maestria.[26] Nel frattempo, nell'aprile 1851, la famiglia si trasferì a Celle sul Rigo sulle pendici del Monte Amiata, ma il giovane Carducci rimase a Firenze per continuare gli studi. Il maggior tempo libero gli permise di vedere più frequentemente Elvira Menicucci, e la simpatia che si era subito venuta a creare si alimentò, se è vero che il 6 settembre Carducci scriveva versi di questo stampo: «E se 'l tempo e i suoi corrucci a' miei canti piegherà Oh! l'Elvira di Carducci forse no, che non morrà» Una breve digressione letteraria si rivela necessaria sin da ora, perché la produzione poetica fu precoce, e c'è chi, forse esagerando, vi ha visto presente in nuce il poeta maturo.[27] Sono in ogni caso anni di intensa sperimentazione poetica, anni in cui Carducci cerca in tutti i modi di affrancarsi da un'impostazione romantica che l'educazione ricevuta e la corrente dominante avevano inevitabilmente imposto al ragazzo e ai componimenti della prima adolescenza. Tra il 1850 e il 1853 si fanno strada l'ode saffica (Invocazione e A O. T. T.) e alcaica (A Giulio), gli inni (A Febo Apolline, A Diana Trivia) e i brani d'ispirazione oraziana. Nonostante ciò, il gusto pratesco resiste ed è riscontrabile nei Lai d'un trovatore e nell'Ultimo canto del poeta. ![]() Oltre all'amore e alla contemplazione rugge nell'irruente spirito carducciano un patriottismo impregnato di motivi pariniani, foscoliani e leopardiani, in una convinta condanna della situazione politica attuale. Accanto al tema della morte, leitmotiv che sarà ricorrente nell'intera vicenda artistica del Nostro, vi è un senso autentico e profondo del religioso, un lancinante e post-manzoniano arrovellarsi attorno all'esistenza di Dio (nel sonetto Il dubbio per esempio), una spiritualità nobile che si tramuterà in anticlericalismo negli anni a venire, certamente per lo scontro con la mentalità bigotta con cui venne frequentemente in contatto.[28] Alla scuola fu ammesso per l'anno 1851-1852 al corso di scienze; la geometria e la filosofia gli furono impartite da padre Celestino Zini, futuro arcivescovo di Siena. In quel periodo il Carducci, che si dava anima e corpo allo studio anche a prezzo di grandi sacrifici (d'inverno si recava a scuola senza mantello e senza sciarpa a causa delle ristrettezze economiche), andava rafforzando una predilezione per i poeti classici dell'antichità, sprone morale e patriottico per l'età presente. Tuttavia, la sua indole passionale lo portò a contatto anche con i romantici, soprattutto Schiller e Scott, mentre si entusiasmò per Leopardi[29] e Foscolo.[30] Siccome vicino a via Romana viveva lo stampatore Emilio Torelli, riuscì a far comparire in forma anonima un sonetto arcadico alla maniera di Angelo Mazza, mentre sempre nel 1852 compose la novella romantica Amore e morte, in cui combinando confusamente assieme vari metri raccontava di un torneo in Provenza e della fuga del vincitore, un cavaliere italiano, con la bella regina della manifestazione; un ratto che dovette tragicamente concludersi a Napoli dove il fratello dell'avvenente tolosana uccise l'amante e la costrinse alla monacazione. L'abate Stefano Fiorelli che curava allora una rivista letteraria non gliela volle tuttavia pubblicare, e Carducci gliene sarà riconoscente, avendo evitato di farsi passare per poeta romantico.[31] Intanto, completati gli studi superiori, nel 1852 raggiunse la famiglia a Celle sul Rigo, che era un piccolo borgo. Rimpianse ben presto la città, e si mantenne lontano dai contatti con la gente del luogo, di mentalità ristretta e bigotta. L'unico conforto gli venne dalla frequentazione di Ercole Scaramucci, trentacinquenne padre di famiglia, proprietario terriero e appassionato di letteratura. Insieme facevano lunghe passeggiate nei campi, sorvegliando con amore il lavoro dei contadini e parlando di poesia, mentre d'inverno in casa Scaramucci inscenavano, assieme alla bella e colta padrona di casa, le tragedie degli autori preferiti, Alfieri, Monti, Niccolini, Metastasio, Pellico.[32] Quando, il 13 ottobre, Scaramucci morì, Giosuè sbalordì tutti alle esequie, recitando un panegirico pieno di citazioni classiche e bibliche.[33] ![]() Il padre cominciava a sentirsi orgoglioso del figlio, mentre contemporaneamente iniziava a dargli serie preoccupazioni il secondogenito Dante, ragazzo buono e dalle molte qualità, ma fragile e abulico. Sempre più spesso faceva nottate da bagordo con amici scioperati, mentre di giorno in giorno sembrava lasciarsi andare. Michele pensò quindi di avviarlo alla carriera militare. Lo fece accompagnare a Siena perché di lì Giosuè lo portasse a Firenze, ma Dante avvisò previamente il fratello dicendo che da Siena sarebbero tornati insieme a Celle, e così fu.[34] Esisteva, presso le Scuole Pie, l'Accademia dei «Risoluti e Fecondi», detta anche dei «Filomusi», presieduta dal Barsottini, di cui facevano parte i migliori alunni, come Carducci, Nencioni e Gargani. In una delle tornate di questa Accademia, nel 1853, furono letti alcuni versi carducciani che colpirono il canonico Ranieri Sbragia, allora rettore della Scuola Normale Superiore di Pisa, il quale incitò Barsottini a far in modo che il giovane concorresse per ottenere una borsa per la prestigiosa Università: «il Barsottini non si fece pregare, come non si fece pregare il Carducci, il quale concorse, ottenne e andò».[35] Così, alla fine del 1853, si iscrisse alla Facoltà di Lettere, dove divenne amico di Ferdinando Cristiani e Giuseppe Puccianti, poi professori come lui. Alla Normale Carducci si diede allo studio anima e corpo, con quell'amore estremo di cui già aveva dato prova negli anni precedenti. All'infuori dell'orario di lezione, le giornate si consumavano abitualmente entro le pareti della sua stanza. Gli amici qualche volta gli facevano degli scherzi inneggiando al Manzoni, quando la sera rientravano sul tardi, e Pinini[36] usciva furibondo facendoli scappare terrorizzati.[37] Alla Scuola Normale, col forte beneplacito dei Governi (1852-1861) Cavour, in linea col programma politico del predecessore Massimo d'Azeglio («Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani»[38]), ricevette il mandato di formare i professori di lettere antiche e lettere moderne, per le scuole primarie e secondarie di tutto il Regno d'Italia, Paese in cui all'analfabetismo doveva sostituirsi una lingua e una cultura letteraria nazionale. L'umore però variava a seconda dei giorni, ogni tanto la porta era aperta in segno di accoglienza, e i compagni chiassosamente entravano e si sdraiavano sul suo letto, mentre il suo carattere sanguigno non gli negò talvolta lunghe fuoriuscite per la città con gli amici, e appassionate serate al Caffè Ebe, dove si riunivano alcuni intellettuali pisani e il futuro vate dibatteva per ore di politica e letteratura bevendo il ponce. D'altra parte, i normalisti lo ammiravano e gli volevano bene, consci inoltre del fatto che quando si avvicinavano gli esami era opportuno "tenerselo buono".[39] Pisa aveva reagito con veemenza ai moti rivoluzionari da poco trascorsi. Alla Normale non solo erano obbligatori la Messa mattutina e il Rosario serale, ma, racconta Cristiani, «Ogni mese dovevamo pure intervenire, cogli altri scolari della Università, alla congregazione, nella chiesetta di san Sisto. Guai a chi avesse ciarlato durante la lunga predica, o fosse mancato all'appello; i bidelli con lapis e carta prendevano nota di tutto per riferirne ai superiori. … Tutte queste pratiche di religione toglievano del tempo allo studio; e il Carducci, che del tempo era economo come l'avaro della borsa, portava anche alla messa, in cambio del libro d'orazioni, un qualche classico del formato in sedicesimo».[37] Questo spirito non doveva certo piacere al Carducci, che scrisse la poesia satirica Al beato Giovanni della Pace (poi inserita nei Juvenilia), prendendosi gioco delle reliquie di un frate del Duecento che erano state superstiziosamente fatte tornare alla luce per essere usate nelle processioni cittadine. Si figuri quindi come Giosuè dovesse mettere in guardia Giuseppe Chiarini, quando questi gli manifestò il desiderio di andare a studiare a Pisa. «Guai, guai nella Scuola Normale a colui che pensa», scrisse nella risposta, lamentando il fatto che gli insegnanti conoscessero nozioni e date, ma senza avere alcuna capacità di sviluppare un ragionamento o manifestare una propria identità.[40] ![]() ![]() Intanto, ancora in una seduta dei «Filomusi», nel settembre 1854 era stato notato da Pietro Thouar, il fondatore del giornale Letture di famiglia, il quale mensilmente pubblicava un'appendice intitolata L'Arpa del popolo, in cui alcune poesie "facili" venivano spiegate ad uso della gente comune. Tramite Barsottini, Thouar offrì a Carducci di lavorare per questo supplemento, ed egli accettò con entusiasmo, dal momento che poteva così anche guadagnare qualche soldo, mentre la famiglia continuava a non avere requie, ed era stata costretta a trasferirsi a Piancastagnaio.[41] Un'epidemia di colera afflisse alcune zone della Toscana nel 1854. Carducci si sentiva molto legato alla sua terra e non esitò a mettere da parte i libri per assistere giorno e notte a Piancastagnaio, assieme al padre e a Dante, le persone che venivano contagiate dal morbo.[42] Il 2 luglio 1856[43] conseguì la laurea in filosofia e filologia con una tesi intitolata Della poesia cavalleresca o trovadorica, inno, vi si legge, al «risorgimento intellettuale (il risorgimento della letteratura e dell'arte in Italia sul finire del medio evo)», lode a Cielo d'Alcamo, ai poeti dello stilnovo, a san Francesco d'Assisi e naturalmente a Dante Alighieri, nell'esaltazione dei modelli classici latini imprescindibile modello anche per la letteratura presente.[44] Nel periodo universitario Carducci era solito recarsi nei giorni liberi a Firenze, per trascorrere del tempo in compagnia degli amici, tra cui spiccavano Giuseppe Torquato Gargani (1834-1862), Giuseppe Chiarini (1833-1908), Ottaviano Targioni Tozzetti (1833-1899), Enrico Nencioni (1837-1896) e altri. Assieme a Nencioni e Chiarini cominciò a stampare, a partire dal 1855, dei versi nell'Almanacco delle dame edito dal cartolaio Chiari, e nel 1856 Giosuè fece uscire nell'Appendice alle Letture di Famiglia (diretta e fondata ancora dal Thouar) una traduzione e un commento dei versi 43-71 della prima Georgica virgiliana e dell'Epodo VII di Orazio.[45] Con gli amici fiorentini diede anche vita al gruppo antiromantico - e di strenua difesa del classicismo - degli Amici pedanti, assieme ai quali attaccò la corrente "odiernissima" dominante in città, appoggiando il Gargani nella stesura della sua Diceria e curando una Giunta alla derrata in cui replicava alle sprezzanti critiche piovute addosso agli Amici dai periodici locali, primo fra tutti il fanfaniano settimanale Il Passatempo.[46] Il debutto nell'insegnamento e l'edizione delle Rime![]() Carducci aveva la vocazione per l'insegnamento pubblico. Durante le vacanze del 1853 a Celle, per esempio, prendeva da parte i ragazzi e parlava loro di letteratura. Inoltre, si è già visto il suo ruolo trainante con i colleghi e gli amici a Firenze e poi a Pisa. Gargani e Nencioni erano precettori privati, e in un primo momento Pietro Thouar propose anche a Giosuè di intraprendere questa via. La risposta fu però chiara: egli voleva impiegarsi nell'insegnamento pubblico.[47] Nel 1856, dopo aver passato l'estate nella ridente Santa Maria a Monte, piccolo borgo nell'odierna provincia di Pisa cantato nel sonetto O cara al pensier mio terra gentile,[48] fu ammesso, per interessamento del direttore della scuola, Giuseppe Pecchioli, al Ginnasio di San Miniato al Tedesco. Lo accompagnarono Ferdinando Cristiani e Pietro Luperini, due normalisti cui furono assegnati rispettivamente l'insegnamento della grammatica e delle umanità. Il Nostro ebbe la cattedra di retorica per la quarta e quinta classe. I tre abitavano a pigione subito fuori Porta Pisana, in una casetta nota nel vicinato come «casa de' maestri», e da loro definita Torre Bianca.[49] Dalla squallida scuola, «grand'edificio monacale», si poteva ammirare il paesaggio del Valdarno e Carducci faceva studiare, tradurre e commentare ai ragazzi soprattutto Virgilio, Tacito, Orazio e Dante, buttando «fuor di finestra gli Inni Sacri del Manzoni».[50] L'entusiasmo iniziale - «Insegno greco: evviva: faccio spiegare Lucrezio ai miei ragazzi: evviva me», scriveva a Chiarini - durò tuttavia poco, e presto il grigiore di un borgo chiuso e gretto doveva prendere il sopravvento.[51] Nella Torre Bianca si mangiava e beveva, e gli schiamazzi indispettivano la gente del luogo. Sebbene Carducci abbia sentenziato che queste, assieme a «giocare, amare, dir male del prossimo e del governo» fossero le occupazioni più degne dell'homo sapiens,[52] era quello un costume che non gli si confaceva e che tradiva l'insoddisfazione latente. Non studiava né scriveva più, e persino la letteratura e la gloria gli parevano vane. «Perché perdere il mio tempo e la mia salute a far commenti e poesie?» scriveva ai fiorentini, «No, non faccio più nulla e non farò più nulla: e faccio bene». Gli fu intanto pretestuosamente affibbiata l'etichetta di «misocristismo», e qualcuno sparse la voce che il Venerdì Santo del 1857 fosse sceso in paese e in una taverna avesse osato proferire una bestemmia in presenza dell’oste. «È vero» ammetterà, «che io in quell'anno andavo pensando un inno a Gesù con a motto un verso e mezzo di Dante, Io non so chi tu sie né per che modo / venuto se' quaggiù», ma è altrettanto vero che quel giorno si trovava a Firenze e in quei mesi aveva salutato Jacopone da Todi come Pindaro cristiano, componendo pure una lauda al Corpo del Signore. Ne nacque una sorta di processo che il buon senso fece però presto naufragare.[53] Tuttavia, i debiti contratti presso Afrodisio, come veniva chiamato colui che li ospitava, e presso il proprietario del Caffè Micheletti, cominciarono ad assumere proporzioni preoccupanti. Fu così che Cristiani ebbe l'idea di far pubblicare le poesie di Carducci. Questi, offeso, rifiutò di prostituire i propri versi per un pubblico che non li avrebbe intesi, «Raccogliere ed esporre io le mie poesie in un libretto a prezzo come in un bordello, e abbandonarle ai contatti del pubblico che le mantrugiasse e stazzonasse come ragazze a cinque o a tre paoli, ohimè! Le poesie, massime allora, io le faceva proprio per me: per me era de' rarissimi piaceri della gioventù gittare a pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia della lingua e nei canali del verso[54]»
ma infine, siccome l'editore Ristori «offeriva un'edizione economica e trattamento da amico», il poeta fu costretto a cedere. ![]() A partire dal mese di maggio lavorò alla correzione dei testi che sarebbero dovuti comparire nel volumetto. Spaziando dalla patriottica ode Agli italiani ai Saggi di un Canto alle Muse, per giungere all'ode A Febo Apolline, ripresa e completamento di un componimento adolescenziale, fino ai sonetti e alle ballate, dopo un intenso labor limae, il libro vide la luce il 23 luglio 1857 per i tipi di Ristori, composto da 25 sonetti, 12 Canti e i Saggi. L'ode oraziana - e in minor misura quella alcaica - la fa da protagonista, in un contesto chiaramente improntato alla ripresa di modelli classici, e non mancano laudi, come quella per la processione del Corpus Domini, o componimenti impregnati da spirito religioso.[55] Certo, però, i debiti non si estinsero, al contrario aumentarono, tanto che alla fine furono i genitori dei ragazzi a pagarli, mentre «le Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliano Giudici, agl'insulti di Pietro Fanfani».[56] Il volume non passò certo inosservato né fu soltanto vituperato. La guerra che Gargani e gli Amici avevano scatenato con la Diceria si rinfocolò all'apparizione delle Rime, con Fanfani in prima linea.[57] Questi pubblicò molti articoli denigratori ne La Lanterna di Diogene, scandalizzandosi del fatto che un certo E.M. avesse avuto l'ardire, ne La Lente, di definire Carducci miglior poeta italiano dopo Niccolini e Mamiani.[58] E.M. altri non era che l'avvocato Elpidio Micciarelli, un amico del Targioni che nel gennaio 1858 fondò il settimanale Momo, mettendolo a disposizione degli Amici. Il Momo pubblicò alcuni sonetti satirici del Carducci, uno diretto contro Fanfani[59] e uno contro Giuseppe Polverini, editore e proprietario de Il Passatempo. La polemica continuò per mesi, a colpi di caricature e sonetti caudati, coinvolgendo anche il Guerrazzi che, in risposta alla richiesta di un parere sulle Rime inviatagli da Silvio Giannini (un amico di Carducci), riconosceva il grande talento del poeta rimproverandogli però il disprezzo per le letterature straniere e il fatto di copiare gli antichi, perché egli non viveva al tempo di Orazio o Pindaro, e doveva sentire e pensare da sé.[60] Alla fine dell'anno scolastico, nell'estate 1857, prese in affitto alcune stanze a Firenze in via Mazzetta di fronte alla famiglia Menicucci, e decise di rinunciare al posto samminiatese. Fu un periodo di frequenti riunioni degli Amici pedanti. Insieme parlavano di letteratura, leggevano e improvvisavano componimenti. Talvolta i raduni si svolgevano in casa di Francesco Menicucci - più spesso dal Chiarini -, uomo di grande bontà d'animo che con entusiasmo aveva preso parte ai moti del 1848, e amava sentire parlare di letteratura e storia, anche se le sue conoscenze in materia erano piuttosto confuse, e una sera in cui si era deciso di leggere Orazio egli infaustamente chiese: «Sono le poesie di Orazio Coclite?». Menicucci venerava il Carducci, e si rallegrava del fidanzamento con Elvira, ormai ufficiale.[61] Alcune riunioni avevano un anfitrione illustre; si tenevano nella cella del padre Scolopio Francesco Donati - da Giosuè scherzosamente soprannominato «Padre Consagrata» -, insegnante alle Scuole Pie dal 1856, studioso della tradizione popolare della Versilia e autore di ballate tradizionali, oltre che di un Saggio di un glossario etimologico di voci proprie della Versilia e un Discorso Della poesia popolare scritta. Nel 1883, nello scritto autobiografico Le «Risorse» di San Miniato al Tedesco, ricorderà con dovizia di dettagli l'esperienza samminiatese. Dopo aver fatto un veloce pensiero alla cattedra di letteratura italiana dell'Università di Torino, che aveva bandito un concorso, alla fine dell'estate fece domanda per insegnare al liceo di Arezzo, ma fu respinto.[62] Dopo San Miniato: la collaborazione con l'editore Barbera e i primi luttiCosì, senza lavoro, in una situazione familiare che continuava a essere attanagliata dalla precarietà economica, ai primi d'ottobre il giovane poeta propose a Gaspero Barbera un'edizione di tutte le opere italiane di Angelo Poliziano. Il Barbera aveva recentemente fondato una casa editrice, destinata poi a gran fama, e cercava qualcuno che curasse le proprie edizioni di opere letterarie. Oltre ad accettare il lavoro polizianeo, offrì al Carducci cento lire toscane per ogni volume di cui avesse curato la parte filologica e tipografica. Giosuè accettò con entusiasmo, e lavorò brillantemente alle Satire e poesie minori di Vittorio Alfieri e a La secchia rapita del Tassoni.[63] La tragedia, però, era dietro l'angolo. Il fratello Dante era ancora senza lavoro e la sua vita era sempre più dissipata. La sera del 4 novembre 1857, a Santa Maria a Monte, Dante arrivò in ritardo per cena, con al collo una sciarpa non sua. Al padre disse di averla ricevuta da una donna che aveva fama di facili costumi, e pare che Michele, irritato, sia uscito dalla stanza seguito dalla moglie, che cercava di calmarlo. L'attimo fu fatale, e rientrando trovarono il figlio che si era inferto una ferita mortale al petto.[64] A partire dal 1925, sono state diffuse teorie che avallavano l'ipotesi di un omicidio da parte del padre,[65] ma studi seri le hanno confutate, e oggi si propende con una certa sicurezza per la tesi del suicidio.[66][67] Giosuè era a Firenze; avvertito, accorse al piccolo borgo e scrisse la canzone In memoria di D.C.. Il padre, profondamente scosso, non si riebbe più, ammalandosi progressivamente. Nelle riunioni con gli Amici Carducci trovò la forza per reagire: si leggevano Ariosto e Berni, e in generale i poeti satirici che tanta parte ebbero nel primo Carducci e nelle polemiche antiromantiche.[68] Il padre però peggiorava rapidamente, e il 15 agosto 1858 una lettera richiamò il figlio a casa. Quando arrivò Michele era già morto. Giosuè dovette quindi prendersi cura della famiglia, e tutti insieme si trasferirono a Firenze, andando ad abitare in affitto in una soffitta di Borgo Ognissanti. Si rimise a studiare alacremente, mentre gli Amici sentirono l'esigenza di lasciar perdere le polemiche letterarie e fondare un giornale di studi letterari. Così nacque il Poliziano, mensile che vide la luce nel gennaio dell'anno successivo. Oltre a Carducci, Targioni e Chiarini, vi scrissero Antonio Gussalli (l'editore principe di Pietro Giordani, forse il prosatore più amato dai Pedanti), Donati, Puccianti e molti altri. Il discorso programmatico uscito nel primo numero, Di un migliore avviamento delle lettere italiane moderne al loro proprio fine, fu naturalmente opera carducciana. Gli eventi politici, tuttavia, entravano nel vivo, e il giornale cessò in giugno le proprie pubblicazioni.[69] Accanto alla collaborazione al Poliziano, Carducci andava intensificando il lavoro per Barbera; fra i tanti titoli di cui curò l'edizione per la Collezione Diamante troviamo Del principe e delle lettere, le Poesie di Lorenzo de' Medici, le Liriche del Monti, le Rime di Giuseppe Giusti, le Satire e odi di Salvator Rosa e le Poesie di Dante Gabriel Rossetti, una virata, quest'ultima, che offese il Donati, purista rigorosissimo.[70] Il matrimonio e il periodo pistoiese![]() Il 7 marzo 1859 si celebrarono molto semplicemente le nozze con Elvira Menicucci, figlia di Francesco Menicucci e figliastra di Anna Celli, sorella della madre Ildegonda, dalla quale avrà due figli e tre figlie (Francesco morto dopo pochi giorni dalla nascita, Dante morto a soli tre anni (1870), Bice, Laura e Libertà, "comunemente" detta Tittì).[71] Carducci la portò provvisoriamente nella casa di Borgo Ognissanti, e poi, due mesi dopo, si trasferirono tutti in via dell'Albero, dove Giosuè riprese a lavorare e studiare. Le riunioni serotine si tenevano ora al Caffè Galileo, all'angolo tra via de' Cerretani e via Rondinelli, e coinvolgevano un gruppo più ampio, composto tra gli altri da Luigi Billi, Fortunato Pagani, Olinto Barsanti, Emilio Puccioni, Luigi Prezzolini e lo stesso editore Barbera.[72] Frattanto il Granduca Leopoldo II era stato cacciato il 27 aprile, segnando l'avvento del governo provvisorio di Bettino Ricasoli, e Carducci si dedicò alla composizione della canzone a lode di Vittorio Emanuele, pubblicata anni dopo ma già circolante manoscritta. Ebbe grande successo, come la coeva ode Alla Croce di Savoia, che Silvio Giannini volle a tutti i costi mettere in musica. Malgrado l'opposizione del diretto interessato, l'opera fu musicata da Carlo Romani e cantata alla Pergola da Marietta Piccolomini. Presentato in quella circostanza al Ministro del culto Vincenzo Salvagnoli, si vide nuovamente offrire un posto al liceo aretino, ma rifiutò. Accettò invece la nomina a professore di greco del liceo Niccolò Forteguerri di Pistoia.[73] Carducci indicò quindi chiaramente la propria appartenenza ideologica alla fazione che voleva l'Italia unita e il ricongiungimento con il Piemonte, in opposizione agli obiettivi dei filo-granducali e a quelli del circolo facente capo a Gino Capponi (il cosiddetto circolo di san Bastiano), propugnatore di un ritorno alla libertà municipale.[74] ![]() Il 12 dicembre, settimina, nacque Beatrice (Bice), la prima figlia, e la famiglia si trasferì a Pistoia tra il 7 e l'8 gennaio 1860. Al fine di trovare prima una sistemazione, Carducci non portò subito con sé la famiglia, ma lo fece solo dopo aver preso dimora in un appartamento di proprietà del professor Giovanni Procacci.[75] La legge sui licei toscani del 10 marzo gli mutò l'insegnamento del greco in quello dell'italiano e del latino - la cattedra di greco fu affidata a Raffaello Fornaciari - ma infine, essendo l'anno scolastico già nella seconda parte, Carducci si risolse, in accordo col direttore della scuola, a fare solo lezioni cattedratiche. In città frequentò la casa della poetessa di lingua inglese d'origine e sentimenti indipendentisti irlandesi Louisa Grace Bartolini (1818-1865), nativa di Bristol e sposa dell'architetto toscano Francesco Bartolini. Convenivano abitualmente nel salotto Giovanni Procacci e Fornaciari, e talvolta vi si univano Gargani e Chiarini, che non avevano perso l'abitudine di andare a trovare l'amico ovunque si trovasse. Per Louisa Grace Carducci nutriva una notevole ammirazione, come dimostrano le parole che antepose all'ode che le dedicò in Levia Gravia: «Quelli che solo abbian visto di lei le versioni dei canti di T.B. Macaulay e E.W. Longfellow e le Rime e Prose ... non potrebbero ancora farsi un'idea giusta del suo ingegno, della dottrina in più lingue e letterature e dell'ancor più grande gentilezza e generosità dell'animo suo».[76] Appena iniziate le lezioni Carducci venne a sapere della spedizione di Garibaldi in Sicilia, e pensando che il Targioni e il Gargani erano partiti a combattere per la patria gli si strinse il cuore. Lui era rimasto ad accudire la madre sofferente per le recenti perdite del figlio e del marito. La passione si profuse quindi nell'ode in decasillabi manzoniani Sicilia e la Rivoluzione, e venne apposta a Firenze per recitarla agli amici entusiasti in casa di Luigi Billi, mentre nel comune obiettivo si dimenticavano le "imperfezioni romantiche" del testo:[77] «In quell'uno che tutti ci fiede, che si pasce del sangue di tutti, di giustizia d'amore di fede tutti armati leviamoci su. E tu, fine de gli odii e de i lutti, ardi, o face di guerra, ogni lido! Uno il cuore, uno il patto, uno il grido: né stranier né oppressori mai più.» L'arrivo a Bologna![]() Nel gennaio 1860 a Torino era stato nominato ministro dell'istruzione Terenzio Mamiani. Nonostante questi fosse in uggia al cugino Leopardi, che ne celebrò ironicamente «le magnifiche sorti e progressive»,[78] né fosse gradito al Mazzini, Carducci lo aveva sempre tenuto in grande stima, tanto da includerlo nel ristretto gruppo dei sei dedicatari delle Rime del 1857, al cui interno vi erano per Mamiani una dedica e un sonetto.[79] È del tutto naturale quindi che il nome di Giosuè gli fosse amico e, conscio del suo straordinario talento, già il 4 marzo così gli scrisse: «La fortuna togliemi per il presente di poterle offerire una cattedra di eloquenza italiana in qualche Università, come porterebbe il suo merito», aggiungendo che per il momento gli sarebbe stato grato se avesse accettato un liceo a Torino o Milano in attesa di arrivare a breve più in alto.[80] Con gratitudine Carducci, pur declinando i venti del Nord della penisola - per non allontanarsi troppo dalla famiglia - si dimostrò pronto ad accettare la nomina presso qualsiasi università. Intanto i mesi passavano e il periodo pistoiese diventava gradevole, in quanto consentiva numerose sortite fiorentine, nella città in cui sognava di insegnare. Il 18 agosto, però, Carducci ricevette da Mamiani una lettera in cui gli comunicava che Giovanni Prati, «per ragioni al tutto speciali», aveva ricusato la nomina a professore di Eloquenza presso l'Ateneo Felsineo, e sarebbe quindi stato onorato nel sapere il Carducci disposto ad accettare la cattedra.[81] Così, con decreto del 26 settembre 1860 venne incaricato dal Mamiani a tenere la cattedra di Eloquenza italiana, in seguito chiamata Letteratura italiana presso l'Università di Bologna, dove rimarrà in carica fino al 1904.[82] ![]() «La sera del 10 novembre 1860 la diligenza di Firenze si fermava dinnanzi alla posta di Bologna, e ne saltava giù un giovane dall'aspetto irsuto e quasi selvatico, impaziente di uscir fuori dall'aria soffocante della vettura chiusa durante un così lungo viaggio.[83]»
Ad accoglierlo c'era un giovane insegnante veneto, Emilio Teza, nominato quell'anno professore di Letterature comparate nell'Ateneo. Questi l'accompagnò in un alloggio provvisorio sito in Piazza dei Caprara, e gli mostrò poi la città, che apprezzò molto. Nei primi tempi passarono assieme molto tempo, e anche successivamente fu uno dei pochi che Carducci frequentò, chiuso in casa a studiare e preparare i corsi o nell'aula universitaria a fare lezione.[84] Carducci prendeva il posto di monsignor Gaetano Golfieri, bolognese, estroso poeta estemporaneo i cui sonetti celebrativi per eventi di ogni sorta - lauree, matrimoni, guarigioni, ecc. - erano noti in tutta Bologna e venivano affissi alle colonne della città. La loro fama si diffuse anche nella campagna circostante. Avendo rifiutato di partecipare al Te Deum nella basilica di San Petronio in occasione del plebiscito, fu esonerato dall'incarico di professore, e perdette anche il titolo di dottore collegiato della Facoltà, quando rifiutò di prestare giuramento al re d'Italia. Si consolò quindi mantenendo il ruolo indiscusso di autore ufficiale di sonetti.[85] ![]() La prima fatica di Carducci consistette nella preparazione della prolusione, pronunciata il 27 novembre in un'aula gremita e che, ampliata notevolmente, andò a comporre i cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale. Il 3 dicembre fu raggiunto dalla famiglia, con cui si accomodò alla meglio in una piccola abitazione presso San Salvatore, per passare a maggio - che a Bologna è il tempo degli sgomberi - in via Broccaindosso, stradina fra le più modeste della città in cui sarebbe rimasto fino al 1876.[86] Il 15 gennaio cominciò le lezioni: il programma prevedeva lo studio della letteratura italiana prima di Dante. L'università felsinea viveva un periodo di degrado cronico, e non era che l'ombra dello splendore dei secoli passati. Il numero degli allievi del neoprofessore andò via via calando, «perché la lezione di diritto commerciale messa su ultimamente mi toglie tutti i giovani», finché la mattina del 22 non poté nemmeno fare lezione, essendosi presentati solo in tre.[87] Intanto, molte idee si affastellavano nella testa del Carducci, e molti progetti. Scriveva un saggio su Giovita Scalvini, pensava ad una biografia leopardiana per la Galleria contemporanea e continuava a lavorare all'edizione polizianea. Tutto ciò gli toglieva tempo per le creazioni poetiche, ma non si arrendeva, tanto che aveva in mente di comporre una canzone sul monumento a Leopardi, un canto in terzine su Roma, un'ode intitolata La plebe e molto altro, senza contare la prosecuzione dell'avventura barberiana, per la cui collezione Diamante erano ormai pronte le Rime di Cino e d'altri del secolo XIV, per le quali chiedeva notizie agli amici fiorentini che potevano vedere direttamente i codici. E poi? Poemi filosofici, e una «marsigliese italiana per le future battaglie». Voleva far uscire entro la fine del 1861 anche un volume di prose, ma non se ne fece nulla. Tutto questo lungo elenco di opere restava a livello di abbozzo - in parte poi tradotto in pratica - perché l'occupazione primaria rimanevano il lavoro e lo studio, fondamentali per forgiare nel modo più compiuto l'autore degli anni a venire.[88] Agli ultimi di luglio del 1861 Gargani raggiunse l'amico, alquanto lieto, a Bologna, e insieme passarono il mese di agosto a Firenze, dove il mese successivo li raggiunse anche Chiarini, che nel frattempo si era stabilito a Torino per collaborare alla Rivista italiana. Fu una riunione felicissima, e trascorsero giorni indimenticabili, mentre Gargani sprizzava gioia da tutti i pori: era promesso sposo della sorella di Enrico Nencioni. Passata l'estate, però, il 24 ottobre Chiarini ricevette da colui che doveva convolare alle fiaccole imenee una lettera disperata; era stato abbandonato dalla fanciulla, e quella sera stessa il Carducci sarebbe corso a Firenze per chiederne ragione. La spedizione non ebbe successo, e il Gargani, da sempre cagionevole di salute, si ammalò di tisi, e la malattia peggiorò rapidamente. Tra febbraio e marzo, Giosuè si spostava quasi quotidianamente in treno fra Bologna e Faenza, al capezzale dell'amico (insegnante nel locale liceo), finché il 29 marzo Gargani morì. Fu un lutto severo per il Nostro; un mese dopo faceva comparire sul giornale fiorentino Le veglie letterarie uno scritto in sua memoria, e gli dedicò poi alcuni versi della poesia Congedo che avrebbe chiuso l'edizione dei Levia Gravia nel 1868.[89] ![]() Nel secondo anno bolognese tenne un corso su Petrarca, mentre scriveva al Chiarini come fosse sua intenzione non staccarsi per molti anni dall'approfondimento della triade portante - Dante, Petrarca, Boccaccio - della letteratura italiana. Solo in seguito si sarebbe potuti passare «agli architravi e alle parti del tempio», ossia ai secoli successivi.[90] L'alleanza di Ricasoli con il Papa intanto lo metteva di cattivo umore e andò inasprendo la sua tendenza anti-cattolica, aiutato in questo da una città che meno di Firenze scendeva a compromessi.[91] L'appartenenza alla MassoneriaNel 1861 la Massoneria aveva ritrovato una grande influenza politica, incarnando i valori del patriottismo e del Risorgimento italiano.[92] Diventò un punto di passaggio frequente per i fautori dell'unità nazionale, tanto che lo stesso Garibaldi vi era affiliato, mentre Giosuè fu iniziato nella Loggia «Galvani» di Bologna[93][94] subito dopo la Giornata dell'Aspromonte, e la poesia Dopo Aspromonte volle essere il manifesto di questo ingresso, un'esaltazione del «Trasibul di Caprera» unita a un'aspra critica verso Napoleone III, all'interno di un tessuto narrativo pesantemente segnato dalla lettura degli Châtiments di Victor Hugo, cui Carducci unì un anti-cattolicismo più sferzante.[95] ![]() Strinse quindi amicizia con uomini politici in vista e dopo l'università entrava al Caffè dei Cacciatori per poi recarsi in Loggia, e quindi percorreva i porticati discutendo con furore di politica e d'arte. In via Broccaindosso nel contempo cominciarono a soffiare i venti stranieri. Dopo aver giocato con la Bice, serrato nella sua stanza subiva sempre più il fascino degli autori d'oltralpe. Leggeva Michelet, Hugo, Proudhon, Quinet. Il primo gli trasmise il gusto di concepire la storia come un immenso tribunale, dove i poeti erano gli accusatori, mentre Quinet e Proudhon gli aprivano sempre più gli occhi sulla realtà di una Chiesa che aveva tradito il mandato divino.[96] «Tu solo, o Satana, animi e fecondi il lavoro, tu nobiliti le ricchezze. Spera ancora, o proscritto»,[97] scriveva Proudhon. Michelet produceva le prove storiche dell'ingiustizia perpetrata ai danni di Satana, identificato con la scienza e la natura, sacrificate alla mortificazione cristiana. Figura di martire politico in Proudhon, venato di riflessi scientifici in Michelet, Satana diveniva emblema del progresso e «del prodigioso edificio ... delle istituzioni moderne»,[98] simbolo di una verità brutalmente calpestata o occultata dal clero. Furono dunque questi i prodromi del celebre inno A Satana. Recatosi a Firenze nel settembre 1863 per la stampa dell'opera sul Poliziano, in una nottata insonne gli ruppe dal cuore l'Inno, composto da cinquanta quartine di senari secondo lo schema ABCB. Lo definì «chitarronata», non riuscito nello stile ma foriero di verità. «L'Italia col tempo dovrebbe innalzarmi una statua, pel merito civile dell'aver sacrificato la mia coscienza d'artista al desiderio di risvegliar qualcuno o qualcosa... perché allora io fu un gran vigliacco dell'arte», scriverà anni dopo.[99] Il 16 ottobre pubblicò l'edizione critica delle opere polizianee, che fece molto scalpore e suscitò notevole ammirazione non solo per la dottrina espressa, ma anche perché era la prima volta che il testo di uno scrittore italiano veniva emendato secondo i dettami della moderna critica testuale. Fervente continuava ad essere anche la collaborazione col Barbera; nel 1862 pubblicò le Poesie di Cino da Pistoia e i Canti e Poemi di Vincenzo Monti. L'anno successivo si dedicò al De rerum natura lucreziano tradotto dal Marchetti, dandolo alle stampe, sempre per la Collezione Diamante, nel 1864.[100] Il 1864 fu anche l'anno di nascita di Laura, la figlia secondogenita. Dopo l'omaggio dantesco, quindi, non poteva mancare quello petrarchesco. Affiliato alla Massoneria del Grande Oriente d'Italia sin dal 1862, nel 1866 fu tra i fondatori della Loggia bolognese "Felsinea", e ne divenne il segretario, ma assunse «ben presto un orientamento contrario al rito scozzese dell'Ordine».[101] Dopo aver scritto un opuscolo di protesta,[102] per conto della Loggia "Felsinea", nel 1867 la loggia fu sciolta dal Gran maestro Lodovico Frapolli e Carducci fu espulso dalla Massoneria. «E il Carducci non se ne occupò mai più, anche se più tardi reiscritto ed accarezzato da uomini di gran nome come Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan».[103] Con il nuovo Gran maestro Adriano Lemmi Carducci fu affiliato il 20 aprile 1886 alla Loggia "Propaganda massonica" di Roma, dove raggiunse il 33° e massimo grado del Rito scozzese antico ed accettato[93]. Negli anni del trasformismo il poeta conquistò un posto centrale nella struttura ideologica e culturale dell'Italia umbertina, giungendo ad abbracciare le idee politiche di Francesco Crispi. Il 30 settembre 1894 pronunciò il discorso per l'inaugurazione del nuovo Palazzo degli Offici (ora Palazzo Pubblico) nella Repubblica di San Marino. Nel 1865 pubblicò a Pistoia, in un piccolissimo numero di esemplari e fuori commercio, l'Inno a Satana, con lo pseudonimo di Enotrio Romano, che dovette usare fino al 1877, accompagnandolo talvolta al nome vero. Tra il 1863 e il 1865 scrisse per la Rivista italiana che, fondata dal Mamiani, era passata sotto la direzione di Chiarini, e accolse scritti carducciani sulla lirica italiana dei secoli XIII e XIV.[104] Imponente è il materiale raccolto in questi anni per opere di erudizione letteraria; meritano menzione il discorso sulle Rime di Dante e i tre raccolti con il titolo Della varia fortuna di Dante e pubblicati su Nuova Antologia tra il 1866 e il 1867. I primi dieci anni bolognesi furono arricchiti da illustri relazioni che riuscì a stabilire; le più significative furono quelle con Francesco Rocchi,[105] insigne studioso di epigrafia, con Pietro Ellero, Enrico Panzacchi, Giuseppe Ceneri, Quirico Filopanti e Pietro Piazza.[106] La poesia laicaLa sua poesia, intanto, sotto l'influsso delle letterature straniere e in particolare di quella francese e tedesca, divenne sempre più improntata di laicismo, mentre le sue idee politiche andavano orientandosi in senso repubblicano. Si dedicò seriamente allo studio del tedesco con l'aiuto di un maestro, tanto che in breve tempo riuscì a padroneggiare i poeti più difficili e amati, quali Klopstock, Goethe, Schiller, Uhland, Von Platen, Heine. Nell'agosto 1867 fu invitato a trascorrere nel "Palazzo Corazzini" (adesso "Palazzo Ortolani") a Pieve Santo Stefano, nella Valle Tiberina, un periodo presso la famiglia Corazzini, che tra i propri membri annoverava il giovane Odoardo, che presto sarebbe morto nella battaglia di Mentana. Pur preoccupato dal succedersi degli eventi politici, il Carducci riuscì, condividendo la vita di campagna sana e naturale dei Corazzini così congeniale al suo modus vivendi, a ritemprare lo spirito e a distendersi. Insieme visitarono le sorgenti del Tevere, e la lieta esperienza estiva fu fonte di ispirazione per la poesia Agli amici della Pieve, poi divenuta Agli amici della valle Tiberina, considerato il suo primo epodo, metro che assurse, insieme al giambo, a protagonista della successiva fase carducciana.[107] ![]() Gli entusiasmi si accesero subito dopo per la spedizione garibaldina su Roma, ma il dolore colse il poeta nel profondo alla notizia della morte di Enrico Cairoli (e del ferimento di Giovanni, che morirà due anni dopo per le ferite riportate nello scontro) a Villa Glori e della prigionia di Garibaldi alla fortezza del Varignano. L'ira fu espressa nelle strofe del Meminisse horret, scritto a Firenze ai primi di novembre. Venuto a conoscenza, poco dopo, della morte di Odoardo Corazzini, scrisse in suo ricordo il famoso epodo, pubblicato per il democratico giornale bolognese L'Amico del Popolo nel gennaio del 1868 e subito stampato presso una tipografia cittadina.[108] Anche questo testo, come Dopo Aspromonte, attinge a piene mani alla poesia politica di Victor Hugo. Mentana non piacque alla Massoneria, e il Gran Maestro Lodovico Frapolli proclamò la chiusura delle logge bolognesi. Il Carducci manifestò allora il proprio spirito mazziniano in modo violento e nel novembre un decreto governativo lo trasferiva per punizione dalla cattedra bolognese a quella di latino dell'Università di Napoli. Valendosi dell'appoggio del ministro dell'Interno Filippo Antonio Gualterio - presso cui chiese al Barbera di intercedere - e promettendo di non occuparsi di politica,[109] Carducci riuscì a rimanere a Bologna, anche se una successiva intemperanza gli procurò una sospensione temporanea dall'insegnamento.[110] Pubblicò, il 1º giugno 1868, presso la tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia, la raccolta Levia Gravia con lo pseudonimo di Enotrio Romano, composta da gran parte delle rime samminiatesi e da una ventina di nuove poesie. Ne rimasero esclusi i testi politici, che pure aveva composto e che infiammavano le logge bolognesi. Il poeta volle che ne fossero stampati pochi esemplari, e che fossero regalati ad amici e intenditori. L'opera non ebbe successo. Carducci riconobbe in futuro che in quella situazione la pubblicazione degli epodi polemici avrebbe senz'altro suscitato maggiore interesse e infiammato il pubblico, nell'acquisita consapevolezza che la prudenza politica è cattiva ispiratrice artistica. Nel 1868 però non ragionava così; si indignò per la pecoraggine del pubblico e si scagliò contro i sedicenti critici democratici, che volevano solo «discorsoni e versoni». Si scontrò duramente con i colleghi di università Francesco Fiorentino, Angelo Camillo De Meis e Quirico Filopanti,[111] si allontanò dalla Massoneria e attraversò un periodo di forte misantropia.[112] «Io alle volte ho paura di me stesso: quando rivolgendo l'occhio al mio di dentro, veggo che non istimo e non amo quasi più nessuno, che m'infingo in continuo sforzo, per non mostrare a quelli con cui discorro quanto sono buffoni e sputacchiabili», scriverà qualche mese più tardi. ![]() La politica però continuava a fomentare nell'animo del Nostro forti passioni; il 22 ottobre i garibaldini Monti e Tognetti fecero esplodere una bomba alla caserma Serristori di Roma provocando la morte di 23 soldati francesi e quattro passanti, tra cui una bambina.[113] Il 24 novembre furono ghigliottinati, e lo stesso mese Carducci compose l'epodo in loro memoria, facendolo subito comparire ne La Riforma e poi proposto in opuscoletto ancora da Niccolai e Quarteroni, con incasso delle vendite da devolversi ai familiari dei decapitati.[114] È un Carducci rabbioso quello che traspare dalle poesie politiche; inveisce ferocemente contro Papa Pio IX che immagina lieto per la decapitazione dei due rivoluzionari, mugugna per la sostituzione del nome di via dei Vetturini con quello di via Ugo Bassi (Via Ugo Bassi), il 1º novembre commemora lugubremente i morti senza pace (Nostri santi e nostri morti), e raggiunge l'acme con il disperato grido di In morte di Giovanni Cairoli: «Accoglietemi, udite, o eroi esercito gentile: triste novella io recherò fra voi la nostra patria è vile» Se questo fu l'anno della rabbia, il successivo fu quello del dolore. Il 3 febbraio 1870 si spense la madre, cui era legatissimo e per cui nutriva una sorta di venerazione. Il dolore fu forte, ma non poté eguagliare quello della perdita del figlio prediletto Dante, nato il 21 giugno 1867 e morto il 9 novembre 1870. Dante cresceva forte e sano, e il padre lo amava smisuratamente. La morte fu improvvisa e imprevedibile.[115] Giosuè, distrutto, si lasciò per qualche tempo |